Archivio | gennaio 4, 2012

Il Contrasto tra Patrizi e Plebei e Il Discorso di Menenio Agrippa

La caduta della monarchia comportò un maggiore potere dei patrizi e del Senato, ma provocò anche nuove tensioni sociali. L’istituzione della repubblica venne infatti gestita dai patrizi in funzione del proprio dominio. Essi assunsero tra l’altro anche il controllo del potere giudiziario: i tribunali erano gestiti esclusivamente da patrizi che, in assenza di leggi scritte, tendevano ad essere assai miti con i loro pari e più severi con i plebei. Tale situazione acuì i contrasti. I plebei, che non erano soltanto i poveri ma in generale coloro che non erano patrizi, anche se proprietari di notevoli ricchezze, continuavano infatti ad essere esclusi dalla vita politica. A ciò si aggiungeva la condizione di molti plebei sottomessi economicamente ai patrizi, che possedevano gran parte dei terreni coltivabili e quindi erano in grado di imporre le proprie condizioni ai lavoratori. Spesso i debitori insolventi, per lo più plebei, divenivano schiavi dei loro creditori, solitamente patrizi. La conflittualità tra patrizi e plebei esplose nel 494 a.C., quando la plebe scelse di ritirarsi sull’Aventino o sul Monte Sacro, rifiutandosi di combattere nella guerra che stava opponendo Roma alle altre popolazioni del Lazio. Secondo la tradizione, un senatore, Menenio Agrippa, ricondusse all’ordine i rivoltosi con un discorso nel quale riconosceva ai plebei il merito di aver svolto compiti di notevole importanza per l’intera comunità. Il discorso di Menenio Agrippa, riportato dallo storico Tito Livio secoli dopo gli eventi, elabora un’immagine destinata ad avere grande successo: quella che paragona il corpo umano alla compagine di uno Stato. Secondo Menenio ogni gruppo sociale svolgeva un ruolo necessario e rivestiva la propria importanza; nello stesso tempo, ciascun gruppo  doveva essere cosciente di rappresentare solo una parte di un organismo più complesso, per il cui benessere ogni componente doveva adoperarsi. Il discorso pronunciato dal senatore avrebbe dovuto chiarire ai ceti che agivano sulla scena politica della Roma repubblicana  le priorità da rispettare per consentire un energica risposta alle sfide interne ed esterne: la salvaguardia della cosa pubblica, il benessere della collettività, il mantenimento dell’unità e della coesione.  Mettere in pericolo tutto questo per interessi di parte rappresentava, agli occhi di Menenio, una scelta miope, poichè avrebbe condannato alla distruzione l’intero organismo repubblicano. La testimonianza di Tito Livio è di dubbia attendibilità: il discorso di Menenio alla plebe, infatti, rispecchia il pensiero di un filone della storiografia romana di età successiva agli eventi narrati, che nei contrasti di parte e nelle lotte sanguinose tra le fazioni individuava una della cause principali della decadenza della repubblica. Tale doveva essere il pensiero di Tito Livio, vissuto nel I secolo a.C. e spettatore delle guerre civili, oppure delle fonti delle quali si servì, collocabili in prevalenza tra il III e il II secolo a.C., un periodo particolarmente segnato dalle lotte sociali. In realtà la secessione del 494 a.C. si concluse con una sostanziale vittoria dei plebei, i quali tornarono a prestare servizio militare e a svolgere le mansioni che ricoprivano in precedenza in cambio di riconoscimenti di grandissima importanza. Ottennero, infatti, di eleggere alcuni loro rappresentanti, i più importanti dei quali erano i tribuni della plebe. Si trattava di due magistrati dotati di ampie prerogative: l’inviolabilità, che proibiva a chiunque di muovere loro violenza o di trascinarli in giudizio durante il periodo in cui rimanevano in carica; il diritto di veto, ossia la facoltà di opporsi a provvedimenti e iniziative di altri magistrati, se questi fossero stati ritenuti lesivi per la plebe; lo ius auxilii, e cioè il potere di opporsi alla condanna a morte di un cittadino romano.

Menenio Agrippa